sabato 24 novembre 2012

Agliata di Teodorico

Ingredienti
  •  noci 
  •  aglio 
  •  pane secco 
  •  brodo di carne 
  •  sale
  •  pepe
Preparazione:
Pestare abbondanti gherigli di noci con spicchi d’aglio.
Aggiungere molliche di pane bagnato nel brodo, e continuare la pestatura incorporando altro brodo, affinché la salsa non raggiunga la giusta consistenza. Aggiustare di sale e pepe.
Questa preparazione si usa mangiare calda, accompagnata a carne di maiale o di cinghiale.

Da:taccuini storici
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Teodorico I il Grande

di Ornella Mariani
Palazzo di Teodorico a Ravenna, mosaico nella basilica di Sant'Apollinare Nuovo
Nato in Pannonia verso il 454 e morto a Ravenna nel 526; figlio del Re ostrogoto Teodomiro; cresciuto ed educato fin dall’età di otto anni alla Corte bizantina, ov’era trattenuto in ostaggio a garanzia della pace; successo al padre nel 474; valoroso Guerriero; accorto Amministratore; scaltro Politico; attento Mecenate; Ariano di fede, ma paladino della libertà religiosa; secondo Sovrano barbaro di Roma; sintesi di culture nordiche, orientali e romane nella fase di profondi stravolgimenti politici, religiosi ed economici d’una Italia desolata, Teodorico il Grande fu il leggendario protagonista della transizione dall’Impero d’Occidente a quello d’Oriente.
Nell’autunno del 488, alla testa di trecentomila Ostrogoti varcò le Alpi orientali: in linea con l’ attività paterna, aveva mantenuto l’alleanza con Costantinopoli dalla quale riscuoteva tributi in cambio del presidio dei suoi confini. L’Imperatore Zenone gli aveva già conferito il titolo di Console e lo stato di Federato Romano ma presto, ritenendolo ingombrante e percependo d’altra parte il pericoloso consolidamento di Odoacre in Italia, aveva deciso di contrapporli incaricando l’uno di liquidare l’altro.
In efetti si trattò di un regolamento di vecchi conti: nel 469, il padre di Teodorico aveva assassinato il padre di Odoacre.
Agguerritissimi, i due si scontrarono nel 489 sull’Isonzo; a Verona e infine sull’Adda in una logorante guerra di movimento: l’Erulo s’arroccò in Ravenna, difesa da impraticabili paludi e rifornita via mare e solo dopo tre anni di vano assedio, col sostegno di una piccola flotta vandala l’Ostrogoto effettuò il blocco navale obbligando il rivale, privo di approvvigionamenti, alla capitolazione. I negoziati si conclusero con un accordo di comune governo; tuttavia, durante il banchetto di pace, a tradimento Teodorico sferrò un fendente sulla testa di Odoacre spaccandola in due: con quel vile assassinio, nel 493, l’Italia si consegnava ad un nuovo padrone.
Delegato da Anastasio a reggere il Vicariato imperiale peninsulare col titolo di Patrizio ed emanato un Editto di revoca dei diritti civili e politici ai partigiani dell’avversario, nel 498 il nuovo Re fu investito dell'autorità regia e premiato con gli Ornamenta Palatii. Di fatto, però, la sua sovranità era limitata e non ereditaria: non AugustusRex, egli era sostanzialmente vassallo dell’Impero; la sua moneta riportava il suo monogramma, ma effigiava l'Imperatore; le nomine consolari, che pur poteva decidere, esigevano la ratifica dell’Autorità bizantina; aveva facoltà di emanare Editti, ma non Leggi; era obbligato a tenere immutati gli antichi Ordinamenti. Il suo edificio politico/sociale, dunque, ebbe per capitale Ravenna, già sede del Prefetto del Pretorio, mentre a Roma restò il Vicarius Urbis da cui dipendevano, immodificate nel numero, le otto Province suburbicarie. Judices di nomina regia e Duumviri, con un Curator a vigilanza delle Finanze e un Defensor a sorveglianza della gestione urbana, infine, furono assegnati al controllo municipale.
Imitando il predecessore, Teodorico attribuì alla sua gente un terzo delle terre conquistate e designò Liberio capo della Deputatio tertiarum: la spoliazione colpì solo i grandi latifondisti dell’ Italia centro/settentrionale ma, se il Sud restò esente da appropriazioni, pur non colpiti dal provvedimento i terrieri furono caricati dell’onere fiscale dell’illatio tertiarum. Quanto alla organizzazione interna: gli Italiani non furono del tutto esclusi dall’esercito ed i Barbari, benché destinati alle armi, non di rado ricoprirono cariche civili e politiche. Molti Consiglieri di Corte, fra i quali i Maiores Domus, furono infatti Goti come i Saioni, dipendenti dal Maestro degli uffici e incaricati di trasmettere gli ordini della Corona.
A sè, Teodorico riservò il ruolo di Comandante supremo delle Forze armate, sebbene affidasse la direzione delle guerre ai suoi Generali e Comites.
Il suo primo problema riguardò l’assetto sociale: Signore di due Popoli diversi per stirpe, indole, costumi e cultura, egli era consapevole di dover promuovere integrazione necessaria alla stabilità del Regno. La sancì, verso il 500, con l’Edictum Theodorici: un codice di centocinquantaquattro articoli fondati sullo Jus romano ma, nei casi non previsti, rivolto al Diritto in uso a ciascuna etnìa. Tuttavia, se la Legislazione fu una, diversi furono i Tribunali: i Presidi delle Province per i Romani; i Comites Ghotorum per i Barbari garantendo, nelle cause miste, al Comes straniero l’assistenza di un Prudens romanus.
Formulato il programma di governo con la Comitiva Gothorum, il Re adottò una condotta rispettosa del culto cattolico; ridette vigore alle consuetudini care ai Romani; abolì l’usanza della vendetta personale, legalizzata dal giudizio di Dio; scelse come stretto collaboratore l’italo/siriaco Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, il cui nonno era stato Tribuno e Notaio alla corte di Valentiniano III ed il cui padre, sotto Odoacre, era stato Conte delle sacre elargizioni, Console della Sicilia, Governatore del Bruzio e Prefetto del Pretorio. Originario di Squillace, egli fu Questore, Maestro degli uffici; Funzionario instancabile e preziosissimo strumento di Stato; Segretario fedele ed estimatore della politica del Sovrano, del quale testimoniò la romanizzazione, malgrado di romano avesse solo la porpora e le insegne.
Attento alle opere di pubblica utilità e di abbellimento, Teodorico fu sollecito nel disporre il parziale prosciugamento delle Paludi Pontine; nel realizzare opere di bonifica in agro ravennate; nel ridare impulso all’agricoltura; nel ridurre i prezzi del vino; nel rilanciare la distribuzione gratuita del grano; nel favorire l’esportazione di prodotti del suolo dedicando a Roma, trascurata dagli ultimi Imperatori, cure particolari: ne fece restaurare le mura, il teatro di Pompeo e le cloache, rimise in sesto il Portus Licini, regolò l'uso delle acque pubbliche e il servizio dell'Annona; restaurò gli spettacoli circensi.
Amator fabricarum et restaurator civitatum, estese il suo lungimirante impegno a Ravenna, ove ordinò il recupero di un anfiteatro e di chiese bellissime, tra le quali san Martino e sant’Apolinare; a Verona, ove fece ricostruire l'acquedotto, una nuova cinta di mura ed ampie terme; a Pavia, ove volle la riedificazione di palazzi e di un pregevole anfiteatro; a Parma, Spoleto e Terracina. Favorì poi Studi ed Arti ma l’ostentato mecenatismo, assunto per solo garantirsi prestigio, gli fu tutt’altro che congeniale: pur mostrandosi incline alla Cultura ed agli Intellettuali, chiamati ad alte cariche: il Poeta Aratore fu Conte dei Domestici, Simmaco fu Principe del Senato, il Filosofo Severino Boezio fu Console ed il Panegirista Ennodio fu Vescovo di Pavia, egli mantenne la barbara convinzione che l’esercizio delle Lettere rendesse codardi.
In quei suoi anni di consolidamento, Teodorico guardò alle sorti delle vecchie Province dell' Impero d'Occidente.
L'Africa settentrionale, da Tripoli a Gibilterra, Corsica, Sardegna e Baleari appartenevano ai Vandali. Morto Genserico, pur non essendo più potenti come una volta, essi costituivano ancora un pericolo con la loro flotta detentrice dell’incontrastato dominio del Mediterraneo Occidentale. In Penisola iberica e nelle fertilissime terre della Gallia con capitale a Tolosa, imperavano i Visigoti di Alarico II il cui padre aveva tenuto una politica anti/cattolica e filo/ariana tale da valergli l’acceso odio degli autoctoni. Privi di sbocchi sul mare, nella fascia fra il Meno e l’Elba, divisi fra Gundobado e Godogiselo, figli superstiti di Gundioc, v’erano inoltre i Burgundi. Infine, dalla riva destra del Reno inferiore alla sponda sinistra fino alla Somma, stanziavano i Franchi Salii: il più potente Popolo barbaro d'oltrAlpe. Nel 451, morto Clodione, la loro unità etnica s’era frantumata in varie Signorie, una delle quali aveva Tournay per capitale e Meroveo per Principe. Egli aveva combattuto con Ezio contro Attila e, alla morte di Valentiniano III, aveva esteso il suo potere sulla Gallia settentrionale e sulla Belgica meridionale. Il successore Childerico aveva allungato le conquiste fino alla Loira ma, battuto da Siagrio, ultimo campione dell'indipendenza della Gallia romana, era arretrato nei vecchi confini. Li aveva poi valicati Clodoveo che, conquistata Soissons nel 486, aveva costretto Siagrio a rifugiarsi alla Corte del visigoto Alarico II. Da quel trionfo aveva avuto inizio la sua fortuna: assunto il controllo di tutto il territorio dalla Senna alla Loira, aveva aggiogato gli altri Principati sorti dopo la morte di Clodione ed aveva spostato la capitale a Parigi governando con giustizia ed eguaglianza: non usurpazioni di terre, non vessazioni, non imposizione dei culti ai Vinti ma parità dei diritti, premessa indispensabile alla fusione delle varie stirpi. Di conseguenza, la Nazione franca era diventata la più compatta dell’Occidente soprattutto per la conversione del Sovrano, sposo della cattolica Principessa burgunda Clotilde. Nel 496, egli aveva sconfitto gli Alemanni, inoltratisi in Alsazia, nella dura Battaglia di Tolbiac e, come raccontò Gregorio di Tours, la vittoria era stata enfatizzata il 25 dicembre dall’assunzione del Battesimo attraverso il Vescovo Remigio di Rheims.
Teodorico non intendeva estendere oltre i suoi domìni già comprensivi di Italia, Rezia, Norico, Pannonia e Dalmazia: desiderava solo che quei Popoli non modificassero l'equilibrio dell'Europa occidentale e che gli fossero amici, nella eventualità di tensioni con l’Imperatore d’Oriente.
Pensò, pertanto, di raccoglierli in una Confederazione sulla quale esercitasse egemonia, come Re della parte più antica e civile dell'Impero Romano d'Occidente.
Che, meglio di una rete di parentele?
Nel 492 sposò Audefleda, sorella di Clodoveo; ad Alarico II Re dei Visigoti concesse la mano della figlia Teodigota; maritò l'altra figlia Ostrogota con Sigismondo, erede del burgundo Gundobado; al Sovrano vandalo Trasimondo dette in moglie la sorella Amalafrida; al Re dei Turingi Erminafrido offrì la nipote Amalaberga.
Ma maturavano in Europa già i germi del gravissimo rivolgimento contro il quale i legami familiari si sarebbero rivelati insufficienti: differenze religiose tra dominatori e dominati e diffusi antagonismi espansivi esponevano la potenza teodoriciana ad incursioni continue dalla parte danubiana dei confini, a danno del vagheggiato ideale di pace. Stanziali in Pannonia, i Lepidi ed il loro Re Traserico rappresentavano una incombente minaccia.
Nel 504, deciso a cacciarli e ad annettere l’area all'Italia, Teodorico affidò al Generale Pitzia l’occupazione di Sirmio e, liberata la regione, la fortificò suscitando la dura reazione della Corte bizantina.
E fu la guerra.
Il capo barbaro Mundo, alla testa di un'orda di Eruli, Unni e Goti penetrò in Mesia e, supportato da Pitzia, quando l’Imperatore Anastasio gli contrappose agguerrite truppe bulgare comandate dal Magister militum Sabiniano, catturò costui e ne mise in fuga i contingenti nella cruenta Battaglia di Horrea Margi.
Nel perdurare di tali eventi nell'Illirico, altre ostilità maturarono oltre le Alpi ove, già nel 503, incalzati dai Franchi, gli Alemanni avevano progettato di invadere l’Italia: per sventare il rischio di apertura di un altro fronte bellico, Teodorico gli aveva concesso di stabilirsi in un territorio del Norico, urtando la suscettibilità di Clodoveo.
La differenza religiosa costituiva un abisso incolmabile tra i cattolici gallo/romani aggiogati ai Visigoti e i loro conquistatori ariani: le attese dei primi erano riposte nei Franchi. Il governo di Costantinopoli rinfocolò le tensioni, opponendo Ariani d'Occidente ad Ostrogoti ed aizzando proprio Clodoveo contro i Visigoti.
I tentativi teodoriciani di impedire il conflitto, proponendo ad Alarico di risolvere la contesa con un arbitrato e poi provando a riunire in Lega Eruli, Turingi, Varni e Burgundi si mostrarono vani e furono, peraltro, scomposti dal passaggio del burgundo Sigismondo alla fazione avversaria.
Le ostilità cominciarono nel 507 quando, guadata la Loira, Clodoveo sconfisse ed uccise a Vouglé Alarico II, i cui due figli: il minore Amalarico ed il primogenito illegittimo Gesalico, furono incapaci di far fronte agli eventi. Il Sovrano franco, allora, invase l'Aquitania; occupò Tolosa; irruppe in Guascogna ed incaricò Sigismondo di assoggettare i territori orientali della Gallia: Arles fu assediata mentre egli, sulla via di Parigi, veniva preceduto a Tours da un’ Ambasceria del Basileus Anastasio che gli conferiva il Consolato onorario.
A Teodorico non restò che riorganizzare le difese delle coste meridionali e allestire la campagna militare in Gallia. Nell’estate di quello stesso anno, il primo dei suoi eserciti, comandato dal Conte Tuluin, occupò l’area marsigliese; il secondo, guidato dal Conte Ibba, entrò in Provenza; il terzo, capeggiato dal Conte Mammo, invase la zona a Nord della Duranza. Riunitisi tutti in Avignone, tornarono sotto le mura di Arles e combatterono una furiosa battaglia, felicemente conclusa: nel 509, i Franchi accettarono di abbandonare le terre sottratte ai Visigoti, eccetto la regione tra la Loira e la Garonna.
Determinato a porre al trono il nipote Amalarico, Teodorico ordinò ad Ibba di portare a termine la guerra; invase Narbona; proseguì per Barcellona e vi sconfisse Gesalico che riparò a Cartagine presso il vandalo Trasimondo, restando poi ucciso nel 511 in una ulteriore sfida spagnola. Nello stesso anno morì anche Clodoveo e il Regno fu diviso fra i quattro eredi: Teoderico, Clodomiro, Childeberto e Clotario.
L'intervento teodoriciano, in definitiva, era valso l’acquisizione della Provenza a capo della quale furono posti un Vicario ed un Prefetto del Pretorio, prima che il controllo fosse esercitato in nome e per conto di Amalarico dal Luogotenente spagnolo Teudis: pur fallita, la politica delle parentele aveva aumentato i possedimenti ed il prestigio del Sovrano il cui reale assillo, in quella stagione, era costituito dalla successione. Privo di prole maschile e, volendo comunque assicurarsi un erede, egli fece venire dalla Spagna Eutarico, della stirpe degli Amali: nel 515 lo fece sposare con la figlia Amalasunta. La scelta, non ratificata dall’Imperatore Anastasio, fu invece condivisa da Giustino I nel 519, con l’assegnazione delle insegne consolari e l’invio a Ravenna di Diplomatici bizantini.
Il prezzo di quel riconoscimento fu assai esoso: mutando l’indirizzo della sua politica religiosa ed ancorché ariano, Teodorico si propose ambiguo mediatore tra la Chiesa romana e la Corte imperiale nella polemica sull’Henoticon. Letteralmente unione, esso si riferiva ad un Editto emanato da Zenone già nel 482 per unificare la fede dei sudditi e, in particolare, per comporre la querelle tra Monofisiti ed ortodossi sulla duplice natura di Cristo. Nel 484 esso era stato condannato da Papa Felice III poiché il suo estensore Acacro, Patriarca di Costantinopoli, non era riuscito a chiarirvi la questione centrale: quella riferita alle due nature di Cristo.
Nel 497 il Pontefice Anastasio II e Teodorico avevano inviato una Delegazione guidata dal Console Flavio Rufio Postumio Festo alla Corte di Anastasio I: il primo con una proposta mirata a ricomporre la rottura seguìta all'Henotikon; il secondo per ottenere un ulteriore avallo dei suoi diritti sull’Italia e il consenso ad indossare le vesti regali. Forse, la mediazione di Festo avrebbe indotto il Primate, cui stava a cuore l’unità della Chiesa, ad accettare il controverso documento; ma egli morì. Il Clero, allora, si divise: una parte sostenne Simmaco, ostile agli interessi imperiali quanto all’Henotikon; una parte designò il più malleabile Lorenzo.
Dopo lunghe e sanguinose contrapposizioni, le due fazioni erano ricorse all’arbitrato del Re che appoggiò il primo designato: ...ut qui primus ordinatus fuisset, vel ubi pars maxima cognosceretur, ipse sederet in sede apostolica..., così confermando ai Bizantini quella sua avversione religiosa il cui indirizzo, per opportunismo, attraverso Festo era stato mascherato.
Simmaco aveva cinto la tiara e, il 1 marzo del 499 per fissare norme chiare circa la nomina papale, aveva convocato in san Pietro un Concilio decretandovi che per il futuro si dovesse considerare eletto chi avesse conseguito la maggioranza dei suffragi. L'anno successivo, aveva poi ricevuto Teodorico con grandi onori anche di Popolo e Senato: ancorché ariano, egli aveva visitato la tomba di san Pietro; si era impegnato al rispetto delle Leggi promulgate dagli Imperatori; si era trattenuto un semestre. La sua partenza, però, era stata accompagnata da disordini dei partigiani di Festo e di Lorenzo, eccitati dal Diacono Pascasio contro il Papa, accusato di simonia e adulterio. Teodorico lo aveva convocato a Rimini ma, quando egli avvalorando le accuse s’era negato, aveva inviato a Roma Pietro Vescovo di Altino con l’incarico di condurre una inchiesta; di amministrare la Chiesa e di convocare un Concilio che giudicasse Simmaco. Fissata alla Pasqua del 501, l’assise s’era tenuta nella Basilica Julia malgrado le proteste dell’Episcopato: spettava al Vicario di Cristo non al Re indire la riunione.
Teodorico si era giustificato assumendo di averla concordata proprio col Pontefice che, invece, in Assemblea aveva preteso di rispondere alle accuse solo previo reintegro nei suoi diritti ed allontanamento del Vescovo di Altino. Il Concilio s’era sciolto senza deliberazioni: il Sovrano ne aveva fissato un secondo al 1° settembre, inviando a garanzia della incolumità di Simmaco i Maiores domus Godila, Redulfo e Aligerno.
Alla data indicata, raccolti in santa Croce di Gerusalemme i Vescovi erano stati raggiunti dalla notizia che il Papa, assalito dai partigiani di Lorenzo e riparato in san Pietro, aveva rimesso la sua causa nelle mani di Dio, rifiutando di sottoporsi ad interrogatorio.
Comunicando a Teodorico che il consesso non avrebbe potuto celebrarsi in assenza di Simmaco, il Concistoro gli aveva chiesto di placare torbidi ma egli cautamente aveva replicato l’impossibilità ad interferire nella vicenda: avrebbe rispettato qualsiasi decisione i Conciliari avessero adottato, purché la pace tornasse nella Chiesa. Il Sinodo s’era concluso il 23 ottobre col rifiuto di settantasei Vescovi a giudicare il Papa, del quale avevano confermato la legittimità minacciando di ritenere scismatici gli altri.
Nel novembre del 502 Simmaco aveva aperto un altro Concilio: vi aveva annullato il decreto di Odoacre circa l’alienazione dei beni ecclesiastici e prescritto l’utilizzo delle rendite ecclesiali per il mantenimento del Clero. La pace era restata comunque lontana: le turbolenze si erano attenuate solo nel 504, col ritiro di Lorenzo in ascesi.
Nel 505 Teodorico aveva intimato a Festo di riconsegnare a Simmaco il controllo di Roma e tutti gli edifici religiosi tenuti dai suoi partigiani: per rendere esecutivo l'ordine, aveva nominato Cassiodoro Governatore. Ma anche quando l’autorità era stata ripristinata, in città era restato vivo il dissidio con i Bizantini: la vittoria di quel Papa aveva implicato la sconfitta dell’Imperatore la cui posizione si era indebolita anche a Costantinopoli, segnata dai tumulti fra i seguaci e gli avversari dell'Henoticon: perché cessassero, era necessario che scomparissero Simmaco ed Anastasio: l’uno era morto nel 514, l’altro nel 518; all’uno succedendo Ormisda, all’altro subentrando l’ortodosso Giustino I.
Essi avevano concluso trattative positive: nel 519 i Delegati papali furono ricevuti dal Popolo e dall'Imperatore e l'Heneticon, ragione di trent’anni di scontri, fu condannato.
Nei negoziati, si ritagliò uno spazio Teodorico: accattivandosi i due, ottenne per il genero Eutarico il riconoscimento, mai più prevedendo che a lungo andare la conciliazione tra Roma e Bisanzio gli sarebbe risultata fatale.
All’inizio, sulla questione, egli chiese al Basileus il riconoscimento della libertà religiosa per gli Ariani all'interno dell'Impero. Giustino respinse la richiesta: per reazione, il Vicario avviò una sistematica persecuzione dei Cristiani, fino ad uccidere Severino Boezio ed il Papa Giovanni I.
In quella fase, peraltro, intervenne una serie di lutti: nel 522 si spense Eutarico, lasciando Atalarico di soli cinque anni; per istigazione della seconda moglie, il burgundo Sigismondo fece assassinare Sigerico, figlio di Ostrogota; nel 523 morì Trasimondo cui successe Ilderico, incline alla Chiesa; Amalafrida fu uccisa. Tali eventi resero Teodorico diffidente e spietato e ne risvegliarono gli istinti barbari con provvedimenti degenerati in atti di estrema crudeltà: verso il 520, quando l’odio fra Ebrei e Cristiani s’era spinto all’incendio delle sinagoghe, egli aveva ordinato ai responsabili di ricostruire a loro spese gli edifici distrutti ed aveva emesso il veto di porto di armi agli Italiani: ut nullus eorum arma usque ad cultellum uteretur. Ora, uno di costoro, il Referendario Cipriano che, per adularlo aveva fatto educare i figli nella lingua e nelle armi dei Barbari, accusava il Presidente del Senato Albino di avere diffamato il Re presso l’Imperatore Giustino.
Era il 523: vera o falsa che fosse l’accusa, il povero Albino fu processato.
Il dotto Severino Boezio, Magister officiorum, ne sostenne l’innocenza con estrema foga: se l’imputato aveva colpe, le avevano anche egli stesso ed il Senato!, con tale tesi volendo proteggere tutti i Senatori indirettamente colpiti dalla denuncia.
Impedito dal ritrattare, Cipriano produsse falsi testimoni e chiamò in causa lo stesso Boezio: Teodorico ne ordinò l'arresto e lo mandò a morte con Albino. In detenzione, il filosofo compose il De consolatione Philosophiae: vi scrisse d’essere stato vittima di uomini corrotti per avere amato la libertà di Roma e difesa la dignità del Senato. Impiccato nel 524, fu brutalmente finito a colpi di mazza. Un anno dopo, il suocero: il Senatore Simmaco, subì la medesima ingiusta condanna. In quello stesso periodo, contro l’arianesimo teodoriciano Giustino pubblicò un Editto in danno degli eretici ed in particolare contro i Manichei estendendolo, l’anno successivo, anche ai Goti.
Teodorico vi interpretò la premessa ad una spedizione armata ed inviò Costantinopoli un’Ambasceria guidata da Papa Giovanni I, succeduto nel 523 ad Ormisda: gli impose di esigere da Giustino la restituzione delle chiese, la revoca del decreto e la libertà di fede ariana. Nell'autunno del 525, l’Ambasceria fu accolta solennemente in Oriente da Clero, Popolo e Basileus: Giovanni restò a Costantinopoli sei mesi, riaffermando il prestigio proprio e della Chiesa ed incoronando il Sovrano, già unto dal Patriarca, con rilevanti effetti politici.
L’evento, nonostante il positivo accoglimento delle istanze, irrigidì Teodorico fino a fargli vedere nel Papa un pericoloso traditore: dopo la Pasqua del 526, lo fece arrestare e morire a Ravenna, così esasperando l’ostilità italiana. Ma, più che il malcontento locale, lo impensieriva il sodalizio fra Bizantini e Vandali. Pertanto, allestì una flotta di mille navi ma, alla vigilia della guerra, il 30 agosto del 526 si spense designando il nipote decenne Atalarico sotto Reggenza della figlia Amalasunta e raccomandando il rispetto per il Popolo romano, per il Senato e per l’Imperatore: principemque orientalem placatum semperque propitium haberent post Deum, così mettendo egli stesso in discussione la propria politica.
In definitiva, Teodorico il Grande fu personaggio dalle tante contraddizioni: voleva la supremazia sugli altri Stati attraverso le parentele, la ottenne armi in pugno; sognò la pace ai confini e li difese con i conflitti; giocò sulle discordie di Roma e Costantinopoli e finì col promuovere l'accordo tra le parti, fino ad esserne travolto. Dopo il fallimento della politica estera e di quella religiosa, infine, fu colpito dalla déblacle della politica interna: si era battuto per la pacifica coesistenza dei suoi Barbari con gli Italiani; aveva manifestato ogni attenzione per opere dì pubblica utilità e di abbellimento; era stato tollerante con i culti; aveva aumentato i privilegi della Chiesa; aveva manifestato ammirato rispetto per la Romanità. Per contro, aveva consentito alla sua gente di agire con prepotenza suscitando timore ed animosità negli Italiani. L’avversione aumentò al punto che egli non fu più ritenuto il Principe illuminato, ma solo un Sovrano ariano colpevole d’aver designato alla successione l’integralista Eutarico: l’evento investì il pur inviso Imperatore bizantino del ruolo di Liberatore!
Bibliografia.