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sabato 12 ottobre 2013

Stinco di maiale alla medievale con salsa Lambrusco e patate Bologna arrosto

Dosi per 4 persone:

    •  hg. 8 di stinco di maiale
    •  ml. 200 di Lambrusco DOC
    •  hg. 1  di truccioli di faggio e abete
    •  g. 20  di zucchero (se occorre)
    •  g. 2  di pepe
    •  g. 8  di sale
    •  ml. 20  di olio extravergine di oliva

    Preparazione:
    Rosolare lo stinco di maiale con l'olio in una padella e salare una volta raggiunta una cottura al sangue. 
    In un'altra padella antiaderente far fumare i trucioli. 
    Far bruciare i trucioli e coprirli con carta stagnola, adagiarvi i filetti e coprire con un coperchio che sigilli per bene. 
    Lasciare riposare per 30 minuti fino ad un massimo di 12 ore 
    (per questo periodo è meglio in frigo) a seconda del proprio gusto affumicato. 
    Nella padella dove si è cotto il maiale, sgrassare il fondo di cottura con il vino, salare, pepare e lasciare addensare. 
    Con l'aiuto di un pennello distribuire la salsa sullo stinco adagiato sul piatto di servizio; cospargere lo stinco col fondo di cottura e servire accompagnato da patate arrosto o purè.


              Vini d'accompagnamento:
              Lambrusco Grasparossa DOC

              Di: Osteria Stallo del Pomodoro (Modena)
              Da: Tipicoatavola.it
              (Emilia/Romagna)

              mercoledì 1 febbraio 2012

              Arnione alla Parigina (Artusi n. 558)

              Prendete un rognone, ossia una pietra di vitella, digrassatela, apritela e copritela d'acqua bollente. 
              Quando l'acqua sarà diacciata, asciugatela bene con un canovaccio ed infilatela per lungo e per traverso con degli stecchi puliti onde stia aperta (a Parigi si usano spilloni di argento), conditela con grammi 30 di burro liquefatto, sale e pepe, e lasciatela così preparata per un'ora o due.
              Dato che la pietra sia del peso di 600 o 700 grammi, prendete altri 30 grammi di burro ed un'acciuga grossa o due piccole, nettatele, tritatele e schiacciatele colla lama di un coltello insieme col burro e formatene una pallottola. 

              Cuocete la pietra in gratella, ma non troppo onde resti tenera, ponetela in un vassoio, spalmatela così bollente colla pallottola di burro e d'acciuga e mandatela in tavola.

              Bistecca nel tegame (Artusi n. 557)

              Se avete una grossa bistecca che, per esser di bestia non tanto giovane o macellata di fresco, vi faccia dubitare della sua morbidezza, invece di cuocerla in gratella, mettetela in un tegame con un pezzetto di burro e un gocciolino d'olio, e regolandovi come al n. 527, datele odore di aglio e ramerino. 
              Aggiungete, se occorre, un gocciolo di brodo o d'acqua, oppure sugo di pomodoro e servitela in tavola con patate a tocchetti cotti nel suo intinto, e se questo non basta, aggiungete altro brodo, burro e conserva di pomodoro.

              Bistecca alla Fiorentina (Artusi n. 556)

              Da beef-steak parola inglese che vale costola di bue, è derivato il nome della nostra bistecca, la quale non è altro che una braciola col suo osso, grossa un dito o un dito e mezzo, tagliata dalla lombata di vitella. 
              I macellari di Firenze chiamano vitella il sopranno non che le altre bestie bovine di due anni all'incirca; ma, se potessero parlare, molte di esse vi direbbero non soltanto che non sono più fanciulle, ma che hanno avuto marito e qualche figliolo.
              L'uso di questo piatto eccellente, perché sano, gustoso e ricostituente, non si è ancora generalizzato in Italia, forse a motivo che in molte delle sue provincie si macellano quasi esclusivamente bestie vecchie e da lavoro. 

              In tal caso colà si servono del filetto, che è la parte più tenera, ed impropriamente chiamano bistecca una rotella del medesimo cotta in gratella.
              Venendo dunque al merito della vera bistecca fiorentina, mettetela in gratella a fuoco ardente di carbone, così naturale come viene dalla bestia o tutt'al più lavandola e asciugandola; rivoltatela più volte, conditela con sale e pepe quando è cotta, e mandatela in tavola con un pezzetto di burro sopra. 

              Non deve essere troppo cotta perché il suo bello è che, tagliandola, getti abbondante sugo nel piatto. 
              Se la salate prima di cuocere, il fuoco la risecchisce, e se la condite avanti con olio o altro, come molti usano, saprà di moccolaia e sarà nauseante.

              Fegatelli in conserva (Artusi n. 555)

              Tutti sanno fare i fegatelli di maiale conditi con olio, pepe e sale, involtati nella rete e cotti in gratella, allo spiede o in una teglia; ma molti non sapranno che sì possono conservare per qualche mese come si pratica nella campagna Aretina e forse anche altrove, ponendoli dopo cotti in un tegame e riempiendo questo di lardo strutto e a bollore. 
              Si levano poi via via che se ne vuoi far uso e si riscaldano. 
              È una cosa che può far comodo a chi sala il maiale in casa, perché si avranno allora meno frattaglie da consumare.
              Alcuni usano cuocere i fegatelli fra due foglie di alloro, oppure, come in Toscana, di aggiungere al condimento un po' di seme di finocchio; ma sono odori acuti che molti stomachi non tollerano, e tornano a gola.

              Piccioni in gratella (Artusi n. 554)

              La carne di piccione per la quantità grande di fibrina e di albumina che contiene, è molto nutriente ed è prescritta alle persone deboli per malattia o per altra qualunque cagione. 
              Il vecchio Nicomaco nella Clizia del Machiavelli, per trovarsi abile a una giostra amorosa, proponevasi di mangiare uno pippíone grosso, arrosto così verdemezzo che sanguigni un poco.
              Prendete un piccione grosso, ma giovine, dividetelo in due parti per la sua lunghezza e stiacciatele bene colle mani. 

              Poi mettetele a soffriggere nell'olio per quattro o cinque minuti, tanto per assodarne la carne. 
              Conditelo così caldo con sale e pepe, e poi condizionatelo in questa maniera: disfate al fuoco, senza farlo bollire, 40 grammi di burro; frullate un uovo e mescolate l'uno e l'altro insieme. 
              Intingete bene il piccione in questo miscuglio e dopo qualche tempo involtatelo tutto nel pangrattato. 
              Cuocetelo in gratella a lento fuoco e servitelo con una salsa o con un contorno.

              Agnello all'orientale (Artusi n. 553)

              Dicono che la spalla d'agnello arrostita ed unta con burro e latte, era e sia tuttavia una delle più ghiotte leccornie per gli Orientali; perciò io l'ho provata e ho dovuto convenire che si ottiene tanto da essa che dal cosciotto un arrosto allo spiede tenero e delicato. 
              Trattandosi del cosciotto, io lo preparerei in questa maniera, la quale mi sembra la più adatta: steccatelo tutto col lardatoio di lardelli di lardone conditi con sale e pepe, ungetelo con burro e latte o con latte soltanto e salatelo a mezza cottura.

              Pesce di maiale arrosto (Artusi n. 552)

              Il pesce di maiale è quel muscolo bislungo posto ai lati della spina dorsale, che a Firenze si chiama lombo di maiale. 
              Colà si usa distaccarlo insieme colla pietra e in cotesto modo si presta per un arrosto eccellente. 
              Tagliatelo a pezzetti e infilatelo nello spiede, tramezzandolo di crostini e salvia come si usa cogli uccelli, e ungetelo, come questi, coll'olio.

              Maiale arrostito nel latte (Artusi n. 551)

              Prendete un pezzo di maiale nella lombata del peso di grammi 500 circa, salatelo e mettetelo in casseruola con decilitri 21/2 di latte. 
              Copritelo e fatelo bollire adagio, finché il latte sarà consumato; allora aumentate il fuoco per rosolarlo e, ottenuto questo, scolate via il grasso e levate il pezzo della carne per aggiungere in quei rimasugli di latte coagulato un gocciolo di latte fresco. 
              Mescolate, fategli alzare il bollore e servitevene per ispalmare delle fettine di pane, appena arrostite, onde servirle per contorno al maiale quando lo manderete caldo in tavola.
              Tre decilitri di latte in tutto potranno bastare. 

              Cucinato così il maiale riesce di gusto delicato e non istucca.

              Pavone (Artusi n. 550)

              Ora che nella serie degli arrosti vi ho nominati alcuni volatili di origine esotica, mi accorgo di non avervi parlato del pavone, Pavo cristatus, che mi lasciò ricordo di carne eccellente per individui di giovane età.
              Il più splendido, per lo sfarzo dei colori, fra gli uccelli dell'ordine dei gallinacei, il pavone abita le foreste delle Indie orientali e trovasi in stato selvatico a Guzerate nell'Indostan, a Cambogia sulle coste del Malabar, nel regno di Siam e nell'isola di Giava. 

              Quando Alessandro il Macedone, invasa l'Asia minore, vide questi uccelli la prima volta dicesi rimanesse così colpito dalla loro bellezza da interdire con severe pene di ucciderli. 
              Fu quel monarca che li introdusse in Grecia ove furono oggetto di tale curiosità che tutti correvano a vederli; ma poscia, trasportati a Roma sulla decadenza della repubblica, il primo a cibarsene fu Quinto Ortensio l'oratore, emulo di Cicerone e, piaciuti assai, montarono in grande stima dopo che Aufidio Lurcone insegnò la maniera d'ingrassarli, tenendone un pollaio dal quale traeva una rendita di millecinquecento scudi la qual cosa non è lontana dal vero se si vendevano a ragguaglio di cinque scudi l'uno.

              Tacchino (Artusi n. 549)

              Il tacchino appartiene all'ordine dei Rasores, ossia gallinacci, alla famiglia della Phasanidae e al genere Meleagris.
               È originario dell'America settentrionale, estendendosi la sua dimora dal nord ovest degli Stati Uniti allo stretto di Panama, ed ha il nome di pollo d'India perché Colombo credendo di potersi aprire una via per le Indie orientali, navigando a ponente, quelle terre da lui scoperte furono poi denominate Indie occidentali. 
              Pare accertato che gli Spagnuoli portassero quell'uccello in Europa al principio nel 1500 e dicesi che i primi tacchini introdotti in Francia furono pagati un luigi d'oro.
              Siccome quest'animale si ciba di ogni sudiceria in cui si abbatte, la sua carne, se è mal nutrito, acquista talvolta un gusto nauseante, ma diviene ottima e saporosa se alimentato di granturco e di pastoni caldi di crusca. 

              Si può cucinare in tutti i modi: a lesso, in umido, in gratella e arrosto; la carne della femmina è più gentile di quella del maschio. 
              Dicono che il brodo di questo volatile sia caloroso, il che può essere, ma è molto saporito e si presta bene per le minestre di malfattini, riso con cavolo o rapa, gran farro e farinata di granturco aggraziate e rese più gustose e saporite con due salsicce sminuzzate dentro. 
              La parte da preferirsi per lesso è l'anteriore compresa l'ala, che è il pezzo più delicato. 
              Per l'arrosto morto e per l'arrosto allo spiede si prestano meglio i quarti di dietro. 
              Trattandosi del primo è bene steccarlo leggermente di aglio e ramerino e condirlo con un battuto di carnesecca o lardone, un poco di burro, sale e pepe, sugo di pomodoro o conserva sciolta nell'acqua, onde poter rosolare nel suo intinto delle patate per contorno. 
              Arrosto allo spiede si unge coll'olio e, piacendo, si serve con un contorno di polenta fritta. 
              Il petto poi, spianato alla grossezza di un dito e condito qualche ora avanti a buona misura, con olio, sale e pepe, è ottimo anche in gratella, anzi è un piatto gradito ai bevitori, i quali vi aggiungono, conciati nella stessa maniera, il fegatino e il ventriglio tagliuzzato perché prenda meglio il condimento.
              Vi dirò per ultimo che un tacchinotto giovane del peso di due chilogrammi all'incirca, cotto intero, allo spiede come la gallina di Faraone, può fare eccellente figura in qualsiasi pranzo, specialmente se è primiticcio.

              Oca domestica Arrosto (Artusi n. 548)

              L'oca era già domestica ai tempi di Omero e i Romani (388 anni av. C.) la tenevano in Campidoglio come animale sacro a Giunone.
              L'oca domestica, in confronto delle specie selvatiche, è cresciuta in volume, si è resa più feconda e pingue in modo da sostituire il maiale presso gl'Israeliti. 

              Come cibo io non l'ho molto in pratica, perché sul mercato di Firenze non è in vendita e in Toscana poco o punto si usa la sua carne; ma l'ho mangiata a lesso e mi piacque. 
              Da essa sola si otterrebbe un brodo troppo dolce; ma mista al manzo contribuisce a renderlo migliore se ben digrassato.
              Mi dicono che in umido e arrosto si può trattare come l'anatra domestica e che il petto in gratella si usa steccarlo col prosciutto o con le acciughe salate, per chi si fa un divieto di quello, e condito con olio, pepe e sale.
              In Germania si cuoce arrosto ripiena di mele, vivanda codesta non confacente per noi Italiani, che non possiamo troppo scherzare coi cibi grassi e pesanti allo stomaco, come rileverete dal seguente aneddoto.
              Un mio contadino, uso a solennizzare la festa di Sant'Antonio abate, volle un anno, meglio del consueto, riconoscerla coll'imbandire un buon desinare a' suoi amici, non escludendo il fattore.
              Tutto andò bene perché le cose furono fatte a dovere; ma un contadino benestante, che era degli invitati, sentendosi il cuore allargato, perché al bere e al mangiare aveva fatto del meglio suo, disse ai commensali:
              - Per San Giuseppe, che è il titolare della mia parrocchia, vi voglio tutti a casa mia e in quel giorno s'ha da stare allegri. - Fu accettato volentieri l'invito e nessuno mancò al convegno.
              Giunta l'ora più desiderata per tali feste, che è quella di sedersi a tavola, cominciò il bello, perocché si diede principio col brodo che era d'oca; il fritto era d'oca, il lesso era d'oca, l'umido era d'oca, e l'arrosto di che credete che fosse? era d'oca!! 

              Non so quel che avvenisse degli altri, ma il fattore verso sera cominciò a sentirsi qualche cosa in corpo che non gli permetteva di cenare e la notte gli scoppiò dentro un uragano tale di tuoni, vento, acqua e gragnuola che ad averlo visto il giorno appresso, così sconfitto e abbattuto di spirito, faceva dubitare non fosse divenuto anch'esso un'oca.
              Sono rinomati i pasticci di Strasburgo di fegato d'oca reso voluminoso mediante un trattamento speciale lungo e crudele, inflitto a queste povere bestie.
              A proposito di fegato d'oca me ne fu regalato uno, proveniente dal veneto, che col suo abbondante grasso attaccato pesava grammi 600, il cuore compreso, e seguendo l'istruzione ricevuta, lo cucinai semplicemente in questa maniera. 

              Prima misi al fuoco il grasso, tagliato all'ingrosso, poi il cuore a spicchi e per ultimo il fegato a grosse fette. 
              Condimento, sale e pepe soltanto; servito in tavola, scolato dal soverchio unto, con spicchi di limone. 
              Bisogna convenire che è un boccone molto delicato.
              Vedi fegato d'oca n. 274.

              Anatra domestica arrosto (Artusi n. 547)

              Salatela nell'interno e fasciatele tutto il petto con larghe e sottili fette di lardone tenute aderenti con lo spago.
              Ungetela coll'olio e salatela a cottura quasi completa. 

              Il germano, ossia l'anatra selvatica, essendo naturalmente magra, getta poco sugo e quindi meglio sarà di ungerla col burro.

              Gallina di faraone (Artusi n. 546)

              Questo gallinaceo originario della Numidia, quindi erroneamente chiamato gallina d'India, era presso gli antichi il simbolo dell'amor fraterno. 
              Meleagro, re di Calidone, essendo venuto a morte, le sorelle lo piansero tanto che furono da Diana trasformate in galline di Faraone. 
              La Numida meleagris, che è la specie domestica, mezza selvatica ancora, forastica ed irrequieta, partecipa della pernice sia nei costumi che nel gusto della carne saporita e delicata. 
              Povere bestie, tanto belline! 
              Si usa farle morire scannate, o, come alcuni vogliono, annegate nell'acqua tenendovele sommerse a forza; crudeltà questa, come tante altre inventate dalla ghiottoneria dell'uomo. 
              La carne di questo volatile ha bisogno di molta frollatura e, nell'inverno, può conservarsi pieno per cinque o sei giorni almeno.
              Il modo migliore di cucinare le galline di Faraone è arrosto allo spiede. Ponete loro nell'interno una pallottola di burro impastata nel sale, steccate il petto con lardone ed involtatele in un foglio spalmato di burro diaccio spolverizzato di sale, che poi leverete a due terzi di cottura per finire di cuocerle e di colorirle al fuoco, ungendole coll'olio e salandole ancora.
              Al modo istesso può cucinarsi un tacchinotto.

              Pollo vestito (Artusi (Artusi n. 545)

              Non è piatto da farne gran caso, ma può recare sorpresa in un pranzo famigliare.
              Prendete il busto di un pollastro giovane, cioè privo delle zampe, del collo e delle interiora; ungetelo tutto con burro diaccio, spolverizzatelo di sale, e un pizzico di questo versatelo nell'interno. 

              Poi, colle ali piegate, lasciatelo con due larghe e sottili fette di prosciutto più magro che grasso e copritelo con la pasta descritta nella ricetta n. 277, tirata col matterello alla grossezza di uno scudo all'incirca. 
              Doratela col rosso d'uovo e cuocete il pollo così vestito a moderato calore nel forno o nel forno da campagna. 
              Servitelo come sta per essere aperto e trinciato sulla tavola.
              A me sembra migliore diaccio che caldo.

              Pollo alla Rudinì (Artusi n. 544)

              Questo pollo, battezzato non si sa perché con tal nome, riesce un piatto semplice, sano e di sapore delicato, perciò lo descrivo. 
              Prendete un pollastro giovane, levategli il collo, le punte delle ali, e le zampe tagliatele a due dita dal ginocchio; poi fatene sei pezzi: due colle ali a ciascuna delle quali lascerete unita la metà del petto, due colle cosce compresavi l'anca e due col groppone toltane la parte anteriore. Levate le ossa delle anche e la forcella del petto; i due pezzi del groppone schiacciateli. 
              Frullate un uovo con acqua quanta ne stia in un mezzo guscio d'uovo, metteteci in infusione il pollo dopo averlo infarinato e conditelo col pepe e col sale a buona misura lasciandovelo fino al momento di cuocerlo. Allora prendete i pezzi a uno per uno, panateli e, messa la sauté o una teglia di rame al fuoco con gr. 100 di burro, cuoceteli in questa maniera. Quando comincia a soffriggere il burro collocateci per un momento i pezzi del pollo dalla parte della pelle, poi rivoltateli, coprite la sauté con un coperchio e con molto fuoco sopra e poco sotto, lasciateli per circa dieci minuti. 
              Servitelo con spicchi di limone e sentirete che sarà buono tanto caldo che freddo.
              Per parlare un linguaggio da tutti compreso, la Sacra Scrittura dice che Giosuè fermò il sole e non la terra e noi si fa lo stesso quando si parla di polli, perché l'anca dovrebbesi chiamar coscia, la coscia gamba e la gamba tarso: infatti l'anca ha un osso solo che corrisponde al femore degli uomini, la coscia ne ha due che corrispondono alla tibia e alla fibula e la zampa rappresenta il primo osso dei piede, cioè il tarso. 

              Così le ali, per la conformità delle ossa, corrispondono alle braccia che, dalla spalla al gomito sono di un sol pezzo (omero) e di due pezzi (radio e ulna) nell'avambraccio; le punte delle ali poi sono i primi accenni di una mano in via di formazione.
              Pare, e se è vero potete accertarvene alla prova, che il pollo cotto appena ucciso sia più tenero che quando è sopraggiunta la rigidità cadaverica.

              Arrosto morto di pollo alla Bolognese (Artusi n. 543)

              Mettetelo al fuoco con olio, burro, una fetta di prosciutto grasso e magro tritato fine, qualche pezzetto d'aglio e una ciocchettina di ramerino. Quando sarà rosolato, aggiungete pomodori a pezzi netti dai semi, oppure conserva sciolta nell'acqua. 
              Cotto che sia levatelo e in quell'intinto cuocete patate a tocchetti, indi rimettetelo al fuoco per riscaldarlo.

              Pollo in porchetta (Artusi n. 542)

              Non è piatto signorile, ma da famiglia. 
              Riempite un pollo qualunque con fettine di prosciutto grasso e magro, larghe poco più di un dito, aggiungete tre spicchi d'aglio interi, due ciocchettine di finocchio e qualche chicco di pepe. 
              Conditelo all'esterno con sale e pepe e cuocetelo in casseruola con solo burro e fra due fuochi. 
              Al tempo delle salsicce potete sostituire queste al prosciutto introducendole spaccate per il lungo.

              Pollo al diavolo (Artusi n. 541)

              Si chiama così perché si dovrebbe condire con pepe forte di Caienna e servire con una salsa molto piccante, cosicché, a chi lo mangia, nel sentirsi accendere la bocca, verrebbe la tentazione di mandare al diavolo il pollo e chi l'ha cucinato. 
              Io indicherò il modo seguente che è più semplice e più da cristiano.
              Prendete un galletto o un pollastro giovane, levategli il collo e le zampe e, apertolo tutto sul davanti, schiacciatelo più che potete. 

              Lavatelo ed asciugatelo bene con un canovaccio, poi mettetelo in gratella e quando comincia a rosolare, voltatelo, ungetelo col burro sciolto oppure con olio mediante un pennello e conditelo con sale e pepe. 
              Quando avrà cominciato a prender colore la parte opposta, voltatelo e trattatelo nella stessa maniera; e continuando ad ungerlo e condirlo a sufficienza, tenetelo sul fuoco finché sia cotto.
              Il pepe di Caienna si vende sotto forma di una polvere rossa, che viene dall'Inghilterra in boccette di vetro.

              Cappone arrosto tartufato (Artusi n. 540)

              La cucina è estrosa, dicono i fiorentini, e sta bene perché tutte le pietanze si possono condizionare in vari modi secondo l'estro di chi le manipola; ma modificandole a piacere non si deve però mai perder di vista il semplice, il delicato e il sapore gradevole, quindi tutta la questione sta nel buon gusto di chi le prepara. 
              Io nell'eseguire questo piatto costoso ho cercato di attenermi ai precetti suddetti, lasciando la cura ad altri d'indicare un modo migliore. 
              Ammesso che un cappone col solo busto, cioè vuoto, senza il collo e le zampe, ucciso il giorno innanzi, sia del peso di grammi 800 circa, lo riempirei nella maniera seguente:

              Tartufi, neri o bianchi che siano poco importa, purché odorosi, grammi 250.
              Burro, grammi 80.
              Marsala, cucchiaiate n. 5.

              I tartufi, che terrete grossi come le noci, sbucciateli leggermente e la buccia gettatela così cruda dentro al cappone; anche qualche fettina di tartufo crudo si può inserire sotto la pelle. 

              Mettete il burro al fuoco e quando è sciolto buttateci i tartufi con la marsala, sale e pepe per condimento e, a fuoco ardente, fateli bollire per due soli minuti rimuovendoli sempre. 
              Levati dalla casseruola, lasciateli diacciare finché l'unto sia rappreso e poi versate il tutto nel cappone, per cucirlo tanto nella parte inferiore che nell'anteriore dove è stato levato il collo.
              Serbatelo in luogo fresco per cuocerlo dopo 24 ore dandogli così tre giorni di frollatura.
              Se si trattasse di un fagiano o di un tacchino regolatevi in proporzione. Questi, d'inverno, è bene conservarli ripieni tre o quattro giorni prima di cuocerli, anzi pel fagiano bisogna aspettare i primi accenni della putrefazione, ché allora la carne acquista quel profumo speciale che la distingue. 

              Per la cottura avvolgeteli in un foglio e trattateli come la gallina di Faraone n. 546.